Aforismi di Franz Kafka)
Franz Kafka nasce a Praga nel 1883 da famiglia borghese. Parlare del fatto che fosse vegetariano o dei suoi ipotetici disturbi della personalità lascia il tempo che trova.
Vi sono autori che hanno nello sguardo più di quanto pagine e tomi interi di critica letteraria possano contenere, e che comunicano
più di quello che penna o bocca o pennello possano fare: credo fermamente che Kafka sia uno di questi.
Il protagonista è uno soltanto: Joseph K., il cui cognome è volutamente puntato, a voler dare un primo segnale di vaghezza e incompiutezza a quel che si andrà a leggere.
Il resto dei personaggi sono solo personaggi da cornice, utili a delineare il carattere freddo di Joseph, o, questi presenti in maggior numero, "avversari", nel senso non di antagonisti, ma di appartenenti a un mondo fatto di leggi, quelle del "tribunale", mondo a cui Joseph non appartiene e in cui non riesce a integrarsi.
Può sembrare azzardato, ma tutto l'impianto del racconto si basa esclusivamente su una parola, su una domanda: "Perchè"?
O meglio: il tutto si basa sull'assenza di tale domanda.
Perchè Joseph è imputato?
Forse non è tanto il "di cosa è imputato?", dato che pare scontato che non sia imputato di nulla, ma proprio il "perchè" sia proprio lui a essere UN imputato.
Verrebbe il dubbio che effettivamente Joseph sia colpevole di qualcosa, eppure sappiamo con certezza che egli è innocente: è l'autore stesso a dircelo addirittura nel primo rigo.
Si provi a rileggere il romanzo: Joseph K. chiede soltanto una volta, all'inizio della vicenda, appena presa coscienza del suo arresto, il perchè: e come risposta riceve soltanto un "non siamo autorizzati a dirglielo."
Joseph da quel momento in poi sposta la sua intera esistenza su un binario che trasporta la vicenda da un piano verosimile a un piano onirico, da incubo: non cerca un perchè, ma cerca chi sia autorizzato a dargli questo perchè, e non trovando qualcuno che possa esserne in grado, comincia a preparare la sua difesa processuale, perdendosi dunque in un labirinto di burocrazia, di piani gerarchici da rispettare, di assurdi rituali.
Leggere "Il processo" è esattamente questo: è la trasposizione letteraria di un incubo ricorrente nei sogni di chiunque, cioè quello di ritrovarsi in un labirinto senza saperne il motivo, e di perdersi nei suoi mille giri tortuosi, sino a che le ginocchia non cedono, stremate, e si attende soltanto la fine come accettazione di un destino che non ha nemmeno senso chiedersi se sia meritato o meno.
Un labirinto sono anche gli spazi in cui Joseph K. si muove: corridoi angusti e bui, soffocanti; stanze nascoste e spazi celati dietro letti e dietro semplici abitazioni. Sono questi gli spazi della legge, una legge che nel romanzo ha l'aspetto di un giudice alto e severo e con la toga nera ma soltanto nei quadri di un pittore squattrinato, e che in realtà ha l'aspetto squallido e raffazzonato di un unico bottone d'oro appuntato su una giacca dai bottoni di tutt'altro colore e materiale.
Questo gioco di apparenze si rivela anche nei rapporti umani: quasi tutti i personaggi sono in rapporti col tribunale, e tutti sono pronti a prestare soccorso a Joseph, ma ogni intervento non fa altro che rendere ancor più fitta l'assurda trama di legami e di passaggi burocratici che dovrebbero essere necessari per la risoluzione della vicenda.
Sembra quasi che Joseph sia il solo nella sua città a non far parte del tribunale: sembra proprio che tale condizione di persona esclusa e lontana da tale mondo lo renda ancor più imputato di quello che sia.
Joseph è solo: e ce ne accorgiamo ogni volta che abbiamo modo di scoprire quelli che sono i suoi rapporti con l'altro.
E' solo e probabilmente tale esclusione è una sua inconsapevole scelta, e solo muore, in mezzo a due figure che sembrano ritagliate da una locandina di teatro lirico, con l'unica enigmatica compagnia sfocata e lontana, troppo lontana e troppo sfocata, di un uomo che s'affaccia da una finestra distante, e a cui Joseph prova a tendere le mani, inutilmente.
Joseph è solo al mondo, e tale muore, "come un cane!".
(Nota di Daniele)
A chi avesse voglia di approfondire le tematiche del libro e della filosofia di Kafka consiglio di leggere il saggio di Alessandro Bellan "Davanti alla Legge. La conoscenza impossibile".
Un estratto:
Come la “storia semplice” diventa “confusa” e Josef K. si arrende all’impossibilità di venirne a capo, allo stesso modo la verità si dissolve nella sua interpretazione, anzi diventa l’interpretazione stessa: ma questo distrugge la possibilità stessa dell’interpretazione della “Scrittura”, perché essa coinciderà con l’“opinione” su di essa. Kafka pensa proprio questa dialettica statica, aporetica, tra verità e interpretazione: la verità può abitare solo nell’interpretazione, nella domanda, nell’interrogazione, ma una verità che dimori solo in questi spazi toglie se stessa in quanto verità. Dunque né interpretazione né verità possono sussistere, ciascuna trasforma l’altra, la neutralizza, la rende indifferente. Ed è qui che Josef K. scrive la sua condanna: egli emette la sua stessa sentenza, è condannato dalla sua impossibilità di venire a capo dell’aporia, tra la Legge come possibilità prossima e la vita come impossibilità di attingerla anche solo parzialmente. Il suo pensiero è una freccia di Zenone che non giunge mai a colpire il suo bersaglio: ecco la sua colpa. E non perché K. sia un “inetto” sveviano, un pigro, un irresoluto, un antieroe, un antipersonaggio beckettiano: K. non attende nessun Godot. Ma K. è condannato proprio perché pensa fino in fondo, fino all’estremo, sia la freccia (l’interpretazione) che il bersaglio (la verità, la Legge). La sua colpa sta in questo soccombere al pensiero da lui stesso suscitato, al suo stesso vano chiedersi in che cosa consista la sua colpa: tutta la sua gnoseologia vorrebbe risolversi in un giudizio, vorrebbe oggettivare quella struttura di oggettivazione che la Legge stessa è. Ma la Legge – struttura di oggettivazione, necessità immutabile – non si lascia a sua volta oggettivare, perché se così fosse ci sarebbe qualcosa di ancora più oggettivo di essa stessa e – dunque – il problema si riproporrebbe.